Abbiamo dovuto tribolare non poco prima di avere il piacere di gustare”L’uomo che verrà” di Giorgio Diritti.
Riusciamo finalmente a trovare un cinema che lo inserisce nella programmazione ed entusiasti ci presentiamo in serata per assistere alla proiezione. Il nostro interesse è bruscamente interrotto da problemi logistici.
In buona sostanza, non era ancora arrivata la pellicola e ci tocca aspettare altre ventiquattro ore.
Ora nessuno ha voglia di star qui a malignare sui motivi che portano a problemi del genere e di come sia assurdo che un film del genere sia distribuito poco e male; ma lasciamo tacere tutto questo e veniamo al film.
In queste due ore quella che ci viene raccontata è la triste, e ai più sconosciuta, vicenda dell’eccidio di Monte Sole: oltre 700 civili massacrati dalle SS in una rappresaglia causata dalle numerose perdite subite per mano delle brigate partigiane.
E’ innegabile che “L’uomo che verrà” sia un film storico, ma non ci troviamo dinanzi a un documentario, o una lezione di storia zeppa di luoghi comuni e punti di vista discutibili e tanta facile retorica. Nella pellicola a essere messe in primo piano sono le braccia dei contadini di Monte Sole, le loro ansie, le loro vite: un voler ridisegnare e ridare a questa gente la dignità che violentemente le è stata strappata, un voler testimoniare che in quella parte sconosciuta d’Italia, si lavorava, si sudava e si cercava di sopravvivere.
E’ questo il messaggio puro ed essenziale del film: qui non c’è posto per la facile retorica, per i discorsi tra vinti e vincitori, ci troviamo a fare i conti con gente che perde in partenza e regala la sua vita a una logica irrazionale dell’odio. A questa gente poco importa che chi venga a bussare alla porta indossi una sciarpa rossa o abbia una divisa tedesca: c’è pane per tutti, ricovero e per chi ha fame e freddo; la loro terra, il loro ricovero diviene panacea di tutti e per tutti.
Qualcuno storcerà il naso parlando di qualunquismo, ma io credo che non sia questo il caso.
La scelta del dialetto e di utilizzare i sottotitoli non fa altro che scavare ancora più nel profondo delle radici di questa gente: s’impone il profumo delle loro vite, quelli che sui libri e nelle testimonianze sono soltanto numeri assumono un volto, degli occhi, una smorfia, un pianto e un urlo.
A un certo punto svaniscono le parole e si fa silenzio, si avverte solo il frastuono del massacro e lo stordimento scende tra noi nella sala: ecco che la bimba protagonista, che non ha mai parlato per tutta la durata del film, intona una ninna nanna che rompe il silenzio sui titoli di coda. E’ questo a volte il modo migliore di ricordare, il silenzio piuttosto che proclami snaturati.
Usciamo e non abbiamo voglia di parlarci, quei volti non li dimenticheremo, quel silenzio sarà con noi.